Semel in Bronx

Roberto Beccantini16 dicembre 2020

Non può essere un caso se, in campionato, la Juventus non riesce a battere una grande. Perché «grande», oggi, non lo è ancora. Alludo al gioco, naturalmente, che Pirlo sta cercando di imporre perché la squadra lo imponga. Sapete del Papu e di Ilicic: senza, l’Atalanta resta un’idea, non corre più come una volta, non ha più la fantasia dei tempi belli, ma è sempre lì: un’idea, appunto, che spinge l’avversario, chiunque sia, a temerla. Anche così.

La Juventus lancia, l’Atalanta avanza. Migliori in campo, i portieri: Gollini (soprattutto) e Szczesny. I peggiori, Morata e Cristiano: il primo, con l’attenuante degli uncini di Romero e dei riflessi di Gollini; il secondo, con l’aggravante di essersi divorato un gol in avvio e di essersi fatto bloccare – bloccare, non parare – un rigorino. Girava al largo come se non volesse fare brutti incontri. Capita, semel in Bronx.

Scritto che Doveri ha diretto a spanne – che nesso c’è fra il contatto Hateboer-Chiesa, punito con il penalty, e la «grazia» a De Roon su Cuadrado? – Chiesa e Freuler hanno firmato reti splendide, per quanto Federico si sia spesso rintanato alla periferia del match (e con Gollini a terra, avrebbe dovuto fermarsi, alla Di Canio).

Di Pirlo, l’aggiustamento più valido rimane il pendolarismo di McKennie, ora rifinitore ora incursore. Magari, al posto del tecnico, avrei anticipato l’ingresso di Dybala, ma sono opinioni. Il Gasp, lui, ha pareggiato – curiosamente – dopo aver «liberato» Gomez, scrivendo l’ennesimo capitolo di una favola nel cuore della quale, tra le fatine, avrebbe fatto irruzione l’orco. La partita è stata «maschia», per usare un termine d’antan, equilibrata, con De Ligt e Zapata a contendersi il titolo dei massimi, vinto dall’olandese, e con la Juventus che, nei cortili domestici, sfoggia troppi tacchi (vero, Morata?). Imbattuta, sì, ma facilmente leggibile.

Dal Lione al Porto: calma

Roberto Beccantini14 dicembre 2020

I sorteggi, pur diversi, sono tutti uguali. Bando alle ciance, allora. Come ammoniva il gentile Bilbao, anche quando uscirono Ajax e Lione si brindò a champagne (non tutti, non lo scrivente): ecco perché la Juventus, prima del suo gruppo, farà bene a non trascurare il Porto. Lazio e Atalanta, seconde nei rispettivi gironi, avevano poca scelta. Sul piano del nome e del valore, a Inzaghino non poteva andar peggio: il Bayern è campione uscente, anche se meno rullo di agosto. Il Gasp, viceversa, si misurerà con il Real di Zidane, capace di perdere due volte con lo Shakhtar e di battere due volte l’Inter. Sull’esito, pende il caso Gomez: è guerra senza margini, come dicono, o sussiste il pertugio di un armistizio? E comunque: andare dal dentista non è mai una gita di piacere. Neppure per «loro», i post-destinati.

Le mie percentuali di Champions in chiave ottavi:

Lipsia 49% Liverpool 51%

Barcellona 40% Paris SG 60% (sempre che Neymar recuperi).

Porto 48% Juventus 52%

Siviglia 51% Borussia Dortmund 49%

Lazio 40% Bayern 60%

Atletico Madrid 51% Chelsea 49%

Borussia Moenchengladbach 30% Manchester City 70%

Atalanta 45% Real Madrid 55%

In Europa League (sedicesimi), il Milan ritrova la Stella Rossa, nel ricordo indelebile della nebbia che, ai tempi dell’albeggiante Sacchismo, evitò la tragedia (sotto di un gol, sotto di un uomo) e propiziò, nel replay del giorno dopo, la vittoria che, ben oltre i rigori, gli avrebbe spalancato la storia.

Granada (settimo nella Liga spagnola) 40% Napoli 60%

Sporting Braga (quarto nel campionato portoghese) 40% Roma 60%

Stella Rossa (prima nel campionato serbo) 40% Milan 60%

Giro, girotondo

Roberto Beccantini13 dicembre 2020

Dal Camp Nou a Marassi, dallo smoking al saio, la Juventus ha provato a ripetere la stessa partita, prendendola di petto. Ma ha trovato solo una cosa in comune: i due rigori. Il Genoa di Maran si è messo lì, fra i bivacchi della sua tre-quarti. Con Pjaca e Scamacca che invocavano improbabili munizioni. Era a senso unico, la partita: una incessante e noiosa processione fino al momento che poi era sempre quello, un corner o un cross.

Per aprire i catenacci, se non hai un «palo» d’area che permetta di pirlargli attorno, devi azzeccare un dribbling, un movimento senza palla, un lancio filtrante. L’idea di Pirlo era di recuperare in fretta, fase che i genoani, preferendo rannicchiarsi, concedevano: e qualcuno fra Madama avrà pensato, magari, al gegenpressing. Dybala girava al largo, e non è una novità; Cristiano, idem, e anche questa non è una novità, se la pancia è piena (e dopo il Barça lo era, lo era). Una coppia a distanza: troppo a distanza. Ci provava McKennie, di testa (Perin reattivo). Si prodigava Cuadrado, il regista occulto della squadra, non però con le stesse magie del derby.

Difendevano alto, Bonucci e De Ligt. Ma palle-gol pulite, non più di un paio (McKennie all’inizio, Cristiano alla fine). Nonostante i dribbling di Chiesa. Nonostante il lavoro sporco di Bentancur. In assenza di scintille, si aspettava l’episodio, che a volte si traveste da errore. Ma di chi? Di un Genoa chiuso a chiave o di una Juventus costretta a sporgersi dal davanzale?

Improvvisamente, i petardi. Un gol di Dybala, alla vecchia maniera, su tocco aereo di McKennie (Usa e detta), poi un pisolo di Alex Sandro, freddato dalla lama di Sturaro, quindi i contatti Rovella-Cuadrado e Perin-Morata, entrato per smuovere la noia. Alla centesima juventina, il Marziano non credeva ai suoi occhi. Trasformare un 5 nell’ennesimo 8, perché no. L’edicola freme.